Il sangiovese

L’origine del nome sangiovese potrebbe essere Sanguis Jovis, ma questa è una sola delle tante ipotesi. Molte sono infatti le testimonianze che troviamo in Toscana e Romagna, le due regioni culla di questo vitigno.

Il sangiovese è legato a un’area fortemente segnata dalla cultura etrusca, popolazione di viticoltori ed esportatori di vino. Il termine Sanisva, molto vicino al dialettale romagnolo sanzvès, lega il sangiovese ancor più alla religione e al culto dei defunti.

Le prime origini del sangiovese ci portano in Magna Grecia, dove durante il simposio veniva bevuto in compagnia, diluito e servito ai commensali. Importante era il suo elevato contenuto di antociani, soprattutto la malvidina. Alcuni resti di anfore psykter e kylix raffigurano questi momenti.

Gli studi sui genitori del sangiovese sono stati tanti, fra i quali, da segnalare, quelli svolti nel 2007, in cui viene proposto un primo risultato: il vitigno sarebbe figlio del ciliegiolo e del calabrese di Montenuovo, una varietà individuata nella provincia di Napoli. Gli studi sul genoma arrivano nel 2013, svolti dal Centro Ricerca di Agricoltura di Bari, dove il calabrese viene sostituito dal negrodolce. In realtà la parentela del sangiovese si completa con circa quaranta vitigni che lo accompagnano in un lungo viaggio, dal Regno di Napoli e quello delle due Sicilie, alla Toscana, dove viene definito autoctono.

Per avere le prime citazioni scritte sul sangiovese dobbiamo aspettare Giovan Vettorio Soderini (1526-1596) che scrive: «il sangiogheto, aspro a mangiare, ma sugoso e pienissimo di vino che non fallisce mai» e «guardati dal sangiogheto, che chi crede farne vino ne fa aceto». Nel 1726 Cosimo Trinci ne L’Agricoltore sperimentato, scrive: «il San Zoveto fa il vino senza odore, molto colorito, grosso e spiritoso; ma portandosi nell’estate piglia facilmente d’aceto, o come altri dicono, il fuoco». Noi interpretiamo il termine ripetuto di “aceto” in “forte acidità”.

Anche Giovanni Cosimo Villifranchi nel 1773 scrive: «S. Gioveto uva rossa quasi nera, tonda, di mediocre grossezza buccia dura… suole essere abbondante e non fallisce quasi nessun anno… fa il vino molto colorito e spiritoso… comunemente si mescola con altre uve e mirabilmente rende corpo e forza ai vini deboli». Lo svariato uso di uve viene mirabilmente raffigurato da Bartolomeo Bimbi nel 1700 con il dipinto dal titolo Uve.

Giorgio Gallesio, nel suo viaggio in Toscana del 1833 osserva il sangioveto fra le uve dominanti del territorio senese; nel 1876 la Commissione ampelografica della Provincia di Siena fissa una netta distinzione tra il nome del vitigno e le zone di produzione: brunello a Montalcino, prugnolo a Montepulciano e sangioveto nel resto della regione, mettendo di fatto le basi dell’enologia moderna. Da qui a poco arriva anche la definizione dei due biotipi grosso e piccolo. Infatti, nel 1906, l’ampelografo Girolamo Molon scrive che «si possa parlare di sangiovesi, e non solo di sangiovese».

Svisceriamo un po’ di numeri. Il sangiovese oggi è coltivato e ammesso in diciotto delle venti regioni italiane e conta cifre importanti: oltre 53 mila ettari vitati, 12 DOCG, 102 DOC, 99 IGT e ben 213 denominazioni. La Toscana detiene il primato con oltre 35000 ha, seguita dalla Romagna con 7500 ha e dalla Puglia con 6000 ha; a seguire le Marche, l’Umbria, la Campania. Fuori dallo stivale, il sangiovese è coltivato in Argentina, Corsica, California, Australia, Cile, Canada, Sud Africa e Nuova Zelanda.

In Italia cinque sono i biotipi principali: sangiovese piccolo nel Chianti, sangiovese grosso a Montalcino, prugnolo gentile nella zona di Montepulciano, sangiovese romagnolo e grossetano per il Morellino di Scansano, quasi tutti coltivati con il sistema a cordone speronato o con il guyot semplice. Il grappolo è alato e la buccia è consistente. Il sangiovese può essere definito come un’uva con capacità colorante media, con pruina spesso presente sulla buccia in piena maturazione, che avviene tardivamente. Uno dei metodi più frequentemente adottati dai produttori e che consente di mitigare certi aspetti ruvidi del sangiovese, consiste nell’aggiungere altri vitigni, in piccole quantità come, ad es., il canaiolo nero.

 

La Toscana

Le macroaree di coltivazione del sangiovese sono due: le colline centrali e l’area costiera marittima. I terreni sono ricchi di flysch, come ricordo del ritiro del mare. In questa regione si contano attualmente 11 DOCG, 41 DOC e 6 IGT. Per i vini prodotti con metodi tradizionali il sangiovese viene accompagnato dal canaiolo nero, dal mammolo, dal colorino e dal ciliegiolo. Per una viticoltura più moderna vengono impiegati il cabernet sauvignon, il cabernet franc, il merlot e lo syrah, alcune volte in percentuali rilevanti.

La storia ci porta indietro fino IV secolo a. C. con gli Etruschi, popolazione stanziale in queste terre, che diedero un forte sviluppo all’agricoltura in generale. Da ricordare anche il XII secolo, durante il quale gli ordini monastici si chiusero nelle loro abbazie portando avanti e tramandandoli alle generazioni successive, i metodi produttivi. Ma la vera data scolpita nella roccia per la vite in terra di Toscana è il 1427 quando fu redatto il Catasto di Firenze eleggendo di fatto le migliori zone vocate per la coltivazione del sangiovese. Per avere il primo vero e proprio disciplinare si dovette aspettare il 1716, quando il Granduca Cosimo III de’ Medici lo fece pubblicare per poter entrare nel mercato inglese invaso, fino a quel momento, solo dai blasonati vini francesi.

Chianti

Il battesimo del Chianti si ebbe nel 1872 grazie al Barone Bettino Ricasoli nel Castello di Brolio, azienda ancora oggi produttiva e ritenuta la terza più antica al mondo.

… Mi confermai nei risultati ottenuti già nelle prime esperienze cioè che il vino riceve: dal Sangioveto la dose principale del suo profumo (a cui io miro particolarmente) e una certa vigoria di sensazione; dal Canajuolo l’amabilità che tempera la durezza del primo, senza togliergli nulla del suo profumo per esserne pur esso dotato; la Malvagia, della quale si potrebbe fare a meno nei vini destinati all’invecchiamento, tende a diluire il prodotto delle due prime uve, ne accresce il sapore e lo rende più leggero e più prontamente adoperabile all’uso della tavola quotidiana…

Barone Bettino Ricasoli 

La DOC Chianti è stata ottenuta nel 1967, seguita dalla DOCG nel 1984. Nel 1996 è istituita la DOCG autonoma Chianti Classico. La piramide della qualità vede oggi alla base il Chianti Classico Annata, poi il Chianti Classico Riserva con un invecchiamento minimo di 24 mesi di cui 3 di affinamento in bottiglia e il Chianti Classico Gran Selezione prodotto da singola vigna o selezione delle migliori uve aziendali, invecchiamento minimo 30 mesi di cui 3 di affinamento in bottiglia.

Brunello di Montalcino

Montalcino è un comune noto già nel Rinascimento per il vino moscadello, dall'aspetto dorato, amabile e piacevole senza tuttavia essere eccessivamente dolce, che veniva consumato dai pellegrini in cammino verso Roma. Fino agli anni ‘60 del secolo scorso il territorio era molto povero e l’abbandono delle campagne, alla ricerca di uno stipendio sicuro in fabbrica, ha fatto registrare nel 1967 solo 76 ettari vitati; oggi sono 2100 ha coltivati a sangiovese grosso.

Gli stili produttivi si dividono tra tradizionalisti e innovatori. La conformazione del territorio di Montalcino ricorda un grosso panettone, sui cui lati scoscesi si hanno diverse pendenze, climi ed esposizioni. Il disciplinare del Brunello di Montalcino DOCG impone una resa massima di 80 quintali per ettaro; l’affinamento minimo in legno per 2 anni e 4 mesi in bottiglia, che diventano 6 per il tipo Riserva. L’immissione nel mercato deve avvenire al termine di 5 anni dalla vendemmia e 6 per il tipo Riserva, con l’obbligo della forma bordolese.

La data che demarca la nascita di questo vino, famoso in tutto il mondo, è il 1888 quando Ferruccio Biondi Santi imbottiglia per la prima volta il prodotto delle sue vigne. A lui succedettero Tancredi e Franco Biondi Santi; entrambi hanno dedicato le loro vite al Brunello di Montalcino, facendo diventare epiche, tra il 1927 e il 1990, le pratiche di ricolmatura delle bottiglie, dapprima solo quelle conservate in azienda e poi anche quelle dei collezionisti.

Nobile di Montepulciano

Le origini del nome Montepulciano derivano probabilmente da Mons Policiano. Alcuni documenti medioevali descrivono questa zona come produttiva di vini eccellenti. Nel 1500 Sante Lancerio scrisse: «vino perfectissimo, da signori, da Nobili». Negli ultimi decenni è stato eseguito un grande lavoro sulla zonazione che ha portato ad avere quasi 1400 ettari atti alla produzione di vino Nobile di Montepulciano DOCG con ben 90 aziende imbottigliatrici, di cui 78 associate al Consorzio. Il vitigno principe per questo vino è il prugnolo gentile presente al minimo per il 70% mentre il restante 30% viene assorbito da altri vitigni complementari con unico limite posto al 5% per i vitigni a bacca bianca. La resa massima per ettaro è fissata a 80 quintali, 2 anni di maturazione in parte in bottiglia, 3 anni per la Riserva con almeno 6 mesi in vetro.

Carmignano

Per questo vino ci spostiamo in provincia di Prato, le cui vigne sono coltivate su terreni molto simili a quelli del Chianti Classico. Anche in questo caso la storia ci porta indietro nel tempo. Alla fine del ’300 Francesco Datini comprava a caro prezzo il Carmignano per la sua cantina in Prato. Francesco Redi, nel ‘600, lo decanta come «vino degno di Giove» e Caterina de’ Medici lo definiva uva francesca. Nel 1975 arriva la DOC e nel 1990 la DOCG retroattiva fino al 1988. Il vitigno sangiovese deve essere presente per un minimo del 50% nel Carmignano DOCG e il canaiolo nero può arrivare al 20%; il saldo è ottenuto con cabernet franc e cabernet sauvignon da soli o congiuntamente dal 10 al 20% mentre trebbiano toscano, canaiolo bianco e malvasia del Chianti da soli o congiuntamente possono essere presenti fino a un massimo del 10%. L’affinamento deve durare almeno 24 mesi di cui 8 in legno, per la tipologia Riserva 36 mesi di cui 12 in legno.

Morellino di Scansano

Ci spostiamo verso il mare, nella provincia di Grosseto, vicino al monte Amiata. Qui incontriamo suoli non profondi, con limo, in cui il morellino, nome locale che viene dato al sangiovese a bacca piccola, è allevato. La DOC è arrivata nel 1978 e la DOCG nel 2007 con le tipologie annata e riserva; quest’ultima deve attendere, prima dell’immissione al commercio, due anni di cui uno in sosta nel legno. Il disciplinare impone un minimo dell’85% di uve sangiovese, per il resto altri vitigni rossi ammessi per la Regione Toscana.

Montecucco Sangiovese

Questo è il sangiovese dell’Amiata cresciuto rapidamente negli ultimi anni grazie alla sua elevata qualità gustativa. La DOC è datata 1998 e la DOCG, molto giovane, è del 2011. Il Montecucco Sangiovese DOCG deve essere composto da almeno il 90% da uve sangiovese con una resa per ettaro di 70 quintali, ed è prevista anche la tipologia DOCG riserva.

 

La Romagna

Cambiamo regione per incontrare il Sangiovese di Romagna DOC. Un atto notarile del 1672, ritrovato nell’Archivio di Stato di Faenza, è il primo documento oggi conosciuto dove si trova il nome sangiovese: «… una signora cede in affitto una vigna, tre filari di sangiovese posti vicino a casa …».

Una vasta area collinare che si sviluppa a sud della via Emilia e tocca più di 50 comuni nelle province di Bologna, Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini è tutto il territorio dove si è fatto un grande lavoro di zonazione, anche grazie al Consorzio. Nel 1967 è arrivata la DOC e dal 2011 abbiamo Il Romagna Sangiovese DOC con Menzione Geografica Aggiuntiva (MGA) frutto eccellente di Sangiovesi prodotti nelle 12 sottozone della Romagna, che esprimono nei vini sfumature diverse.

Per chiudere in dolcezza abbiamo il Vin Santo Occhio di Pernice, prodotto con il sangiovese e la malvasia nera, che prevede l’uso di caratelli, piccole botti sigillate e dimenticate per anni. Fino a quando la delizia contenuta sarà imbottigliata e poi degustata, ma con parsimonia, purtroppo, visto le modeste quantità a disposizione.


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